Una sera a cena con Zanon, Mattioli, Giorgetti e Buttiglione nel cuore di Milano.

Pubblicato il 14 gennaio 2023 alle 21:01
Categoria: Boxe
Autore: Redazione Datasport.it

 

Una sera a cena con Zanon, Mattioli, Giorgetti e Buttiglione nel cuore di Milano.

di Giuliano Orlando

MILANO. “Ci vediamo al Ristorante Venice in Corso Buenos Aires” per salutare Lorenzo Zanon in partenza per il Brasile”. La voce di Giorgio Bardaro esperto d’arte e amico di Lorenzo, è forte e chiara. All’invito, oltre al sottoscritto, si presentano l’ex mondiale superwelter Rocky Mattioli, l’ex europeo Walter Giorgetti e l’ex tricolore Edmondo Buttiglione, in aggiunta attorno al tavolo, ci sono Elio Lanzani, Silve Angelo Flaborea, Sergio Marzi e Antonio Bardeschi, uniti dalla passione per la boxe, oltre che amici dei campioni. Lorenzo Zanon, 71 primavere ben portate, è in procinto di tornare in Brasile, a Pium, un paesino non lontano da Natal, la capitale dello stato del Rio Grande do Norte, dove risiede stabilmente dal lontano 2006. Il soggiorno in Itala è alla conclusione, durato quasi un mese, trascorso tra inviti e ricordi, sempre disponibile e sorridente. Negli anni ha messo qualche chilo in più e, vista l’altezza che si avvicina all’uno e novante, crea un’immagine decisamente imponente. Lorenzo è alla mia sinistra, mentre Rocky Mattioli, ovvero l’ex campione del mondo dei medi jr. nel 1977, titolo conquistato sul ring di Berlino, distruggendo l’idolo di casa Eckhard Dagge, tra lo sconcerto degli spettatori e la grande gioia degli italiani presenti, compreso il sottoscritto, è alla mia destra. Per saperne di più del grande campione, nato a Ripa Teatina come Francesco Marcheggiani il papà di Rocky Marciano, basta leggere il libro “Rocky Marciano the King” dove riservo uno spazio importante all’amico Rocky, abruzzese doc. Oltretutto, ha fatto un patto col diavolo, che gli assicura di aver fermato il tempo. Si presenta con la mascherina tenuta fino al momento di assaggiare la vasta scelta degli antipasti. Conoscendolo bene, non bisogna fargli fretta, una volta scaldato il motore dei ricordi, diventa un oratore affascinante.                                                                                                                                                                           Di fronte ho Valter Giorgetti (19-3-1), nato a Gallarate (Varese) il 10 luglio 1957, papà discreto dilettante.  Segue le orme paterne, con lo scopo di guadagnare con le borse i soldi per acquistare una chitarra. Sceglie la Gallaratese dove insegna Aldo Maistro, un grande maestro.  Due volte campione lombardo e due volte bronzo agli assoluti. Debutta pro il 13 marzo 1981 a 24 anni. Il 9 luglio dell’anno successivo è campione italiano gallo sul ring di Pineto in Abruzzo, battendo il sardo Roberto Serreli. Due difese, batte Giancarlo Ravaioli e pareggia con Paolo Castrovilli. Diventa campione d’Europa il 9 giugno 1983 a Sciacca, detronizzando il forte cremonese Giuseppe Fossati. Tre difese brillanti, ai danni dello spagnolo Martinez Antunes, dell’inglese John Feeney e del francese Kamel Djadda. L’organizzatore Rodolfo Sabbatini il 14 luglio1984 lo fa debuttare a Montecarlo, dove supera lo spagnolo Juan Castellanos, due mesi dopo sempre nel Principato, trova Jeff Whaley, pugile di Detroit, dal pugno pesante: 11 vittorie e 10 KO. Giorgetti, poco allenato subisce lo stesso trattamento al terzo round. L’americano ha calcato dal 1981 al 1997 (sedici stagioni) chiudendo con record di 18 vittorie, 13 per KO, 38 sconfitte e un pari. Giorgetti perde l’europeo a tavolino e quando ci riprova il 2 maggio 1985, a Messina,  è demotivato a cede all’emergente napoletano Ciro De Leva abbandonando all’8° round. Dopo quella sconfitta, si ritira. Diventa insegnante e con l’amico Maurizio Ronzoni fonda la “Thunder Boxing Team” a Casorate Sempione. Qualche anno dopo supera positivamente gli esami e diventa arbitro. Ruolo che ha assolto fino a poco tempo addietro. Ho seguito da bordo ring buona parte dei suoi incontri apprezzandone la boxe elegante, oltre all’atteggiamento misurato in ogni situazione. Meritava ampiamente questa digressione, forse un po’ fuori tempo, ma come si dice; meglio tardi che mai. Nell’occasione conviviale ha confermato la passione per la boxe e i toni misurati in ogni intervento.                                                                                                                                                                                L’altro addetto ai lavori presente alla tavolata è Edmondo Buttiglione, nato a Milano il 19 agosto 1960. Entra in palestra per perdere peso. In effetti quando si presenta ha un aspetto parecchio florido. Allievo del grande maestro Ottavio Tazzi alla Doria, campione italiano novizi 1976, bronzo agli assoluti 1979, conquista il tricolore con l’Esercito a Terracina nel novembre 1980 da medio, dominando la categoria. In finale supera il quotato Patti, che subisce ben tre conteggi. Oro al Torneo di Roma nello stesso anno, merita il posto di titolare agli europei del 1981 a Tampere in Finlandia. Vince il primo incontro per wo e nella sfida successiva incrocia i guantoni col più alto polacco Gosiewski, costretto sempre sulla difensiva dagli assalti dell’azzurro. Ero presente a quella rassegna e posso affermare che Buttiglione aveva vinto nettamente. Purtroppo tre giudici su cinque, ancora succubi dell’ex presidente europeo Lisowsky, gli negarono quanto meritava. Un vero peccato, perché sicuramente sarebbe arrivato al bronzo.  Ci consolammo con l’oro di Francesco Damiani e l’argento di Carlo Russolillo. Passa pro nel 1982, pareggia contro Giovanni Di Marco il 5 giugno 1985 per il titolo italiano medi a Lucca. Chiude l’attività nel 1987, con un record di 19+3-1=. E’ sempre rimasto nell’alveo della boxe da insegnante e grande appassionato. Orgoglioso del figlio, ottimo dilettante.  Gli altri presenti fanno parte degli appassionati a tutto tondo. Chi per la boxe in generale, chi per un campione in particolare al quale è legato da forte amicizia.

Dopo gli abbondanti antipasti è il momento del cosiddetto primo, che al Venice Restaurant, si traduce in una pastasciutta col ragù alla bolognese di vaste proporzioni. Mattioli e altri evitano il bis, mentre Lorenzo si ferma dopo il terzo “assaggio”. Nonostante l’impegno sui piatti da spolverare con disinvoltura, trova il tempo per raccontare alcuni passaggi della lunga carriera sul ring. “A portarmi in palestra fu uno zio, alto due metri che aveva praticato il pugilato, preoccupato di avere un nipote basso. Non aveva torto, mio padre era alto 1,95, mamma oltre l’1.80. Io non avevo ancora compiuto 17 anni ed ero sotto l’1,90, infatti mi sono fermato a 1.88”.

Sei entrato in palestra a 16 anni, all’Unione Sportiva Lombarda di Seregno, presidente Enrico Oldani, un grande appassionato e di grande cuore, in seguito rivestì la carica di presidente della Lombardia, il maestro era Luigi Casati, dal quale non ti sei mai staccato. Racconta il debutto e l’incidente al ginocchio che rischiò di bloccarti l’attività.

“Prima volta sul ring a 17 anni nel 1968, l’anno dopo vinco il titolo italiano novizi, battendo in finale un certo Filipponi, due metri di altezza, che praticava anche l’atletica in particolare disco e martello.  In molti mi sconsigliavano di affrontarlo, per la mia incolumità. Anche il maestro Casati era titubante, l’unico tranquillo ero io. In effetti la prima ripresa fu parecchio impegnativa, lui sparava cannonate ed io ero impegnato a evitarle, alla seconda lui inizia a calare e io ad aumentare i colpi col sinistro. Al terzo round situazione capovolta, David comincia a colpire Golia che inizia a retrocedere, fino a quando decide che è meglio abbandonare che farsi riempire la faccia di pugni. Una bella impresa. Purtroppo qualche mese dopo, tornando a casa dalla palestra, finisco fuori strada per il fondo scivoloso. Mi portano all’ospedale e riscontrano qualche costola rotta ma il guaio vero è la rottura completa dei tendini al ginocchio destro. Per rimetterli in sesto dovetti subire quattro interventi e il verdetto finale del chirurgo fu esplicito. “Abbiamo fatto l’impossibile per riuscire a farti camminare quasi normalmente. Nessun carico al ginocchio, purtroppo la boxe resterà un ricordo”.                            

A dispetto delle previsioni sei tornato in palestra percorrendo una carriera brillante che ti ha portato a vincere l’europeo e disputare il mondiale contro Larry Holmes a Las Vegas nel 1980.

“E’ vero, a 18 anni i miracoli possono compiersi, se hai la caparbietà di essere più forte del destino. La boxe era il mio amore assoluto, ma ci vollero quasi due anni per tornare a combattere. Appena forzavo il ginocchio si gonfiava, dovevo evitare di appoggiarmi troppo sul destro. Così il maestro Casati impostò un lavoro certosino sul sinistro che divenne il colpo migliore del mio repertorio. Oldani pagò tutte le spese e non furono poche. Torno sul ring nel 1972, vinco i lombardi e vado agli assoluti, perdendo in finale contro il romano Laureti. Prendo parte alla preolimpica di Salerno per scegliere il titolare nei massimi. Mi prendo la rivincita su Laureti. Mi convocano in nazionale, dove trascorro tre mesi a Fiuggi, allenandomi senza sosta, sognando le olimpiadi. Quando scelgono la squadra, mi escludono ritenendomi troppo inesperto e giovane. E’ stata la più grande delusione della mia vita. Avevo perso il lavoro che avevo lasciato per andare alle ai Giochi di Monaco in Germania. La lezione mi servì per il futuro”.

Decidi di passare al professionismo e debutti il 26 luglio 1973 a 21 anni sul ring di Monza affrontando il mancino lecchese Ermanno Festorazzi, poca tecnica ma un sinistro bomba. Come andò?   

“Andò che alla terza ripresa beccai in piena faccia quel sinistro e conclusi il round a luci spente. Mi svegliai all’angolo e nelle riprese badai a non fare il bis, tenendolo a distanza col sinistro. Vado avanti a suon di vittorie, un solo pari il 14 marzo 1975 a Milano, contro Randy Stevens, uno di New York che al secondo round mi fece inginocchiare, ma per il resto lo imbottii di sinistri e destri e il pari fu un regalo dei giudici a Stevens. Due mesi dopo affronto il veneto Bepi Ros per il vacante tricolore dei massimi. Bepi aveva quasi 33 anni, dieci anni di carriera e conosceva tutte le malizie del ring. Era stato campione italiano diverse volte, aveva combattuto per l’europeo, impegnando l’apolide Joe Bugner a Londra. Al suo confronto ero un poppante, un match molto difficile che vinsi di strettissima misura. Forse la battuta più indovinata la disse lui sotto la doccia: ‘Ti hanno dato la vittoria perché sei più bello’. In quell’occasione il manager Umberto Branchini si dichiarò interessato per avermi nella sua scuderia, ma Gigi De Molinari col quale avevo sottoscritto un contratto triennale chiede un riscatto esagerato, facendo presente che ero il campione italiano. Così alla prima difesa non feci nulla per vincere contro Dante Canè, che infatti si prese la cintura. Il mio valore scese e passai con Umberto che aveva ben altre conoscenze di Gigi, una brava persona ma completamente avulso dai contatti che contano”

Cosa cambiò con il “cardinale”.    

“Praticamente tutto.  Andai ad allenarmi a Milano alla Doria, dove trovai un maestro come Ottavio Tazzi e un preparatore atletico come Del Vecchio, utilissimo perché muscolarmente ero tutto da costruire. I risultati si videro subito e in breve arrivai all’europeo e poi al mondiale”.

Ti ricordi quando venni nella tua camera a Las Vegas per chiederti se andava tutto bene

“Certo che me lo ricordo, anche perché mi hai interrotto mentre stavo contando i dollari della borsa. E anche il proseguo del viaggio in incognito, per una settimana cambiando alberghi e città e nessuno si accorse che la comitiva aveva una persona in più. Altri tempi, indimenticabili”.

Da quanti vivi in Brasile?

“Dal 2007, anche se il primo assaggio lo feci nel 2005, da allora mi sono talmente abituato al dolce far niente che ogni volta che torno in Italia, mi sembrano tutti matti e frenetici. Pium è un piccolo centro a 15 km, da Natal, molto tranquillo. In passato ho aperto un ristorante e un ‘bed and best’ ma c’era troppo da lavorare con un guadagno quasi inesistente. Poi è arrivata l’età della pensione e me la sto godendo al 100%. La cifra è minima e con quello che prendo, in Italia farei la fame, qui vivo molto decorosamente e metto via qualcosa per tornare in Italia ogni due anni”.

Rimpianti?

“Per niente, rifarei quasi tutto e quel poco che ho sbagliato rientra nella norma. Adesso ho una compagna che mi sopporta col sorriso, le mie figlie sono tutte sistemate, io sono nonno felice anche se in trasferta prolungata. A volte vado io, altre volte mi vengono a trovare i tanti italiani che soggiornano da queste parti. Poi ci sono anche buoni amici del posto. Quando torno in Italia passo serate come questa, dove amici veri mi tengono compagnia, ritrovo un campione come Mattioli, che ha fermato il tempo e come il giornalista che mi ha visto debuttare e ancora ha la voglia di intervistarmi. Cosa voglio di più?

E’ la volta appunto di Mattioli, che alla domanda cosa vede nel futuro della boxe italiana è tassativamente negativo. “I ragazzi stanno troppo bene, la boxe è sport di sacrifici e devi saper soffrire. E’ vero, le palestre sono piene di giovanotti che fanno ginnastica e al primo scambio di pugni salutano e vanno a ballare. Quando entrai in palestra in Australia, avevo 13 anni e dopo pochi giorni di ginnastica mi misero a fare i guanti, con uno che aveva già disputato diversi incontri e pesava dieci chili più di me. Me le suonò di brutto, ma imparai che non dovevo mai arrendermi e combattere per vincere. Perché non mollai? Perché ero povero e la boxe poteva farmi guadagnare i dollari per uscirne fuori. Certo, devi avere gli attributi e io lo avevo”.

Nel 1977 sei andato a Berlino nella tana del tedesco Dagge, idolo delle donne, che occupavano il bordo ring incantate, pronte a osannarlo. Purtroppo per lui, dovettero assistere alla sua esecuzione. Al quinto round lo hai steso. Cosa avevi dentro per ottenere quel risultato?

“La boxe era il mio mestiere e la mia vita. Per quel mondiale avevo sputato sangue nella preparazione, tutta quella fatica non potevo gettarla al vento. A Dagge restavano le ammiratrici e io mi prendevo la cintura mondiale”.  

Nel marzo del 1970, Benvenuti venne a combattere in Australia a Melbourne e abbandonò all’ottavo round contro Tom Bethea detto ‘la bomba’. Eri presente a quell’incontro? Perché il pubblico fischiò l’italiano per tutto il match?

“Nell’occasione disputai il mio secondo confronto da pro, battendo Glenn Grinsted sui quattro round. I fischi del pubblico derivavano da un episodio che rischiò di far saltare l’incontro. Il procuratore Bruno Amaduzzi volle essere pagato prima del match, mettendo in imbarazzo l’organizzatore che contava di pagarlo il giorno dopo, con l’incasso al botteghino. Niente da fare, se non pagava prima, Benvenuti non saliva sul ring. Lo salvò un altro organizzatore che firmò un assegno personale (30.000 dollari) pari a 19 milioni di lire. Il match slittò di quasi due ore e quando il pubblico venne a sapere il motivo, si scatenò contro l’italiano, che deluse al punto di abbandonare, tra i fischi degli spettatori”.

A distanza di un mese e mezzo a Umago, Nino riservò lo stesso trattamento all’americano.

“A Melbourne perse una grande occasione, al di fuori dei due risultati. Io stesso ero curioso di vedere combattere Benvenuti, che era campione del mondo e confesso che fu una grande delusione”.                                                    

A fine cena tutti soddisfatti, con la speranza di

Una sera a cena con Zanon, Mattioli, Giorgetti e Buttiglione nel cuore di Milano.

di Giuliano Orlando

MILANO. “Ci vediamo al Ristorante Venice in Corso Buenos Aires” per salutare Lorenzo Zanon in partenza per il Brasile”. La voce di Giorgio Bardaro esperto d’arte e amico di Lorenzo, è forte e chiara. All’invito, oltre al sottoscritto, si presentano l’ex mondiale superwelter Rocky Mattioli, l’ex europeo Walter Giorgetti e l’ex tricolore Edmondo Buttiglione, in aggiunta attorno al tavolo, ci sono Elio Lanzani, Silve Angelo Flaborea, Sergio Marzi e Antonio Bardeschi, uniti dalla passione per la boxe, oltre che amici dei campioni. Lorenzo Zanon, 71 primavere ben portate, è in procinto di tornare in Brasile, a Pium, un paesino non lontano da Natal, la capitale dello stato del Rio Grande do Norte, dove risiede stabilmente dal lontano 2006. Il soggiorno in Itala è alla conclusione, durato quasi un mese, trascorso tra inviti e ricordi, sempre disponibile e sorridente. Negli anni ha messo qualche chilo in più e, vista l’altezza che si avvicina all’uno e novante, crea un’immagine decisamente imponente. Lorenzo è alla mia sinistra, mentre Rocky Mattioli, ovvero l’ex campione del mondo dei medi jr. nel 1977, titolo conquistato sul ring di Berlino, distruggendo l’idolo di casa Eckhard Dagge, tra lo sconcerto degli spettatori e la grande gioia degli italiani presenti, compreso il sottoscritto, è alla mia destra. Per saperne di più del grande campione, nato a Ripa Teatina come Francesco Marcheggiani il papà di Rocky Marciano, basta leggere il libro “Rocky Marciano the King” dove riservo uno spazio importante all’amico Rocky, abruzzese doc. Oltretutto, ha fatto un patto col diavolo, che gli assicura di aver fermato il tempo. Si presenta con la mascherina tenuta fino al momento di assaggiare la vasta scelta degli antipasti. Conoscendolo bene, non bisogna fargli fretta, una volta scaldato il motore dei ricordi, diventa un oratore affascinante.                                                                                                                                                                           Di fronte ho Valter Giorgetti (19-3-1), nato a Gallarate (Varese) il 10 luglio 1957, papà discreto dilettante.  Segue le orme paterne, con lo scopo di guadagnare con le borse i soldi per acquistare una chitarra. Sceglie la Gallaratese dove insegna Aldo Maistro, un grande maestro.  Due volte campione lombardo e due volte bronzo agli assoluti. Debutta pro il 13 marzo 1981 a 24 anni. Il 9 luglio dell’anno successivo è campione italiano gallo sul ring di Pineto in Abruzzo, battendo il sardo Roberto Serreli. Due difese, batte Giancarlo Ravaioli e pareggia con Paolo Castrovilli. Diventa campione d’Europa il 9 giugno 1983 a Sciacca, detronizzando il forte cremonese Giuseppe Fossati. Tre difese brillanti, ai danni dello spagnolo Martinez Antunes, dell’inglese John Feeney e del francese Kamel Djadda. L’organizzatore Rodolfo Sabbatini il 14 luglio1984 lo fa debuttare a Montecarlo, dove supera lo spagnolo Juan Castellanos, due mesi dopo sempre nel Principato, trova Jeff Whaley, pugile di Detroit, dal pugno pesante: 11 vittorie e 10 KO. Giorgetti, poco allenato subisce lo stesso trattamento al terzo round. L’americano ha calcato dal 1981 al 1997 (sedici stagioni) chiudendo con record di 18 vittorie, 13 per KO, 38 sconfitte e un pari. Giorgetti perde l’europeo a tavolino e quando ci riprova il 2 maggio 1985, a Messina,  è demotivato a cede all’emergente napoletano Ciro De Leva abbandonando all’8° round. Dopo quella sconfitta, si ritira. Diventa insegnante e con l’amico Maurizio Ronzoni fonda la “Thunder Boxing Team” a Casorate Sempione. Qualche anno dopo supera positivamente gli esami e diventa arbitro. Ruolo che ha assolto fino a poco tempo addietro. Ho seguito da bordo ring buona parte dei suoi incontri apprezzandone la boxe elegante, oltre all’atteggiamento misurato in ogni situazione. Meritava ampiamente questa digressione, forse un po’ fuori tempo, ma come si dice; meglio tardi che mai. Nell’occasione conviviale ha confermato la passione per la boxe e i toni misurati in ogni intervento.                                                                                                                                                                                L’altro addetto ai lavori presente alla tavolata è Edmondo Buttiglione, nato a Milano il 19 agosto 1960. Entra in palestra per perdere peso. In effetti quando si presenta ha un aspetto parecchio florido. Allievo del grande maestro Ottavio Tazzi alla Doria, campione italiano novizi 1976, bronzo agli assoluti 1979, conquista il tricolore con l’Esercito a Terracina nel novembre 1980 da medio, dominando la categoria. In finale supera il quotato Patti, che subisce ben tre conteggi. Oro al Torneo di Roma nello stesso anno, merita il posto di titolare agli europei del 1981 a Tampere in Finlandia. Vince il primo incontro per wo e nella sfida successiva incrocia i guantoni col più alto polacco Gosiewski, costretto sempre sulla difensiva dagli assalti dell’azzurro. Ero presente a quella rassegna e posso affermare che Buttiglione aveva vinto nettamente. Purtroppo tre giudici su cinque, ancora succubi dell’ex presidente europeo Lisowsky, gli negarono quanto meritava. Un vero peccato, perché sicuramente sarebbe arrivato al bronzo.  Ci consolammo con l’oro di Francesco Damiani e l’argento di Carlo Russolillo. Passa pro nel 1982, pareggia contro Giovanni Di Marco il 5 giugno 1985 per il titolo italiano medi a Lucca. Chiude l’attività nel 1987, con un record di 19+3-1=. E’ sempre rimasto nell’alveo della boxe da insegnante e grande appassionato. Orgoglioso del figlio, ottimo dilettante.  Gli altri presenti fanno parte degli appassionati a tutto tondo. Chi per la boxe in generale, chi per un campione in particolare al quale è legato da forte amicizia.

Dopo gli abbondanti antipasti è il momento del cosiddetto primo, che al Venice Restaurant, si traduce in una pastasciutta col ragù alla bolognese di vaste proporzioni. Mattioli e altri evitano il bis, mentre Lorenzo si ferma dopo il terzo “assaggio”. Nonostante l’impegno sui piatti da spolverare con disinvoltura, trova il tempo per raccontare alcuni passaggi della lunga carriera sul ring. “A portarmi in palestra fu uno zio, alto due metri che aveva praticato il pugilato, preoccupato di avere un nipote basso. Non aveva torto, mio padre era alto 1,95, mamma oltre l’1.80. Io non avevo ancora compiuto 17 anni ed ero sotto l’1,90, infatti mi sono fermato a 1.88”.

Sei entrato in palestra a 16 anni, all’Unione Sportiva Lombarda di Seregno, presidente Enrico Oldani, un grande appassionato e di grande cuore, in seguito rivestì la carica di presidente della Lombardia, il maestro era Luigi Casati, dal quale non ti sei mai staccato. Racconta il debutto e l’incidente al ginocchio che rischiò di bloccarti l’attività.

“Prima volta sul ring a 17 anni nel 1968, l’anno dopo vinco il titolo italiano novizi, battendo in finale un certo Filipponi, due metri di altezza, che praticava anche l’atletica in particolare disco e martello.  In molti mi sconsigliavano di affrontarlo, per la mia incolumità. Anche il maestro Casati era titubante, l’unico tranquillo ero io. In effetti la prima ripresa fu parecchio impegnativa, lui sparava cannonate ed io ero impegnato a evitarle, alla seconda lui inizia a calare e io ad aumentare i colpi col sinistro. Al terzo round situazione capovolta, David comincia a colpire Golia che inizia a retrocedere, fino a quando decide che è meglio abbandonare che farsi riempire la faccia di pugni. Una bella impresa. Purtroppo qualche mese dopo, tornando a casa dalla palestra, finisco fuori strada per il fondo scivoloso. Mi portano all’ospedale e riscontrano qualche costola rotta ma il guaio vero è la rottura completa dei tendini al ginocchio destro. Per rimetterli in sesto dovetti subire quattro interventi e il verdetto finale del chirurgo fu esplicito. “Abbiamo fatto l’impossibile per riuscire a farti camminare quasi normalmente. Nessun carico al ginocchio, purtroppo la boxe resterà un ricordo”.                            

A dispetto delle previsioni sei tornato in palestra percorrendo una carriera brillante che ti ha portato a vincere l’europeo e disputare il mondiale contro Larry Holmes a Las Vegas nel 1980.

“E’ vero, a 18 anni i miracoli possono compiersi, se hai la caparbietà di essere più forte del destino. La boxe era il mio amore assoluto, ma ci vollero quasi due anni per tornare a combattere. Appena forzavo il ginocchio si gonfiava, dovevo evitare di appoggiarmi troppo sul destro. Così il maestro Casati impostò un lavoro certosino sul sinistro che divenne il colpo migliore del mio repertorio. Oldani pagò tutte le spese e non furono poche. Torno sul ring nel 1972, vinco i lombardi e vado agli assoluti, perdendo in finale contro il romano Laureti. Prendo parte alla preolimpica di Salerno per scegliere il titolare nei massimi. Mi prendo la rivincita su Laureti. Mi convocano in nazionale, dove trascorro tre mesi a Fiuggi, allenandomi senza sosta, sognando le olimpiadi. Quando scelgono la squadra, mi escludono ritenendomi troppo inesperto e giovane. E’ stata la più grande delusione della mia vita. Avevo perso il lavoro che avevo lasciato per andare alle ai Giochi di Monaco in Germania. La lezione mi servì per il futuro”.

Decidi di passare al professionismo e debutti il 26 luglio 1973 a 21 anni sul ring di Monza affrontando il mancino lecchese Ermanno Festorazzi, poca tecnica ma un sinistro bomba. Come andò?   

“Andò che alla terza ripresa beccai in piena faccia quel sinistro e conclusi il round a luci spente. Mi svegliai all’angolo e nelle riprese badai a non fare il bis, tenendolo a distanza col sinistro. Vado avanti a suon di vittorie, un solo pari il 14 marzo 1975 a Milano, contro Randy Stevens, uno di New York che al secondo round mi fece inginocchiare, ma per il resto lo imbottii di sinistri e destri e il pari fu un regalo dei giudici a Stevens. Due mesi dopo affronto il veneto Bepi Ros per il vacante tricolore dei massimi. Bepi aveva quasi 33 anni, dieci anni di carriera e conosceva tutte le malizie del ring. Era stato campione italiano diverse volte, aveva combattuto per l’europeo, impegnando l’apolide Joe Bugner a Londra. Al suo confronto ero un poppante, un match molto difficile che vinsi di strettissima misura. Forse la battuta più indovinata la disse lui sotto la doccia: ‘Ti hanno dato la vittoria perché sei più bello’. In quell’occasione il manager Umberto Branchini si dichiarò interessato per avermi nella sua scuderia, ma Gigi De Molinari col quale avevo sottoscritto un contratto triennale chiede un riscatto esagerato, facendo presente che ero il campione italiano. Così alla prima difesa non feci nulla per vincere contro Dante Canè, che infatti si prese la cintura. Il mio valore scese e passai con Umberto che aveva ben altre conoscenze di Gigi, una brava persona ma completamente avulso dai contatti che contano”

Cosa cambiò con il “cardinale”.    

“Praticamente tutto.  Andai ad allenarmi a Milano alla Doria, dove trovai un maestro come Ottavio Tazzi e un preparatore atletico come Del Vecchio, utilissimo perché muscolarmente ero tutto da costruire. I risultati si videro subito e in breve arrivai all’europeo e poi al mondiale”.

Ti ricordi quando venni nella tua camera a Las Vegas per chiederti se andava tutto bene

“Certo che me lo ricordo, anche perché mi hai interrotto mentre stavo contando i dollari della borsa. E anche il proseguo del viaggio in incognito, per una settimana cambiando alberghi e città e nessuno si accorse che la comitiva aveva una persona in più. Altri tempi, indimenticabili”.

Da quanti vivi in Brasile?

“Dal 2007, anche se il primo assaggio lo feci nel 2005, da allora mi sono talmente abituato al dolce far niente che ogni volta che torno in Italia, mi sembrano tutti matti e frenetici. Pium è un piccolo centro a 15 km, da Natal, molto tranquillo. In passato ho aperto un ristorante e un ‘bed and best’ ma c’era troppo da lavorare con un guadagno quasi inesistente. Poi è arrivata l’età della pensione e me la sto godendo al 100%. La cifra è minima e con quello che prendo, in Italia farei la fame, qui vivo molto decorosamente e metto via qualcosa per tornare in Italia ogni due anni”.

Rimpianti?

“Per niente, rifarei quasi tutto e quel poco che ho sbagliato rientra nella norma. Adesso ho una compagna che mi sopporta col sorriso, le mie figlie sono tutte sistemate, io sono nonno felice anche se in trasferta prolungata. A volte vado io, altre volte mi vengono a trovare i tanti italiani che soggiornano da queste parti. Poi ci sono anche buoni amici del posto. Quando torno in Italia passo serate come questa, dove amici veri mi tengono compagnia, ritrovo un campione come Mattioli, che ha fermato il tempo e come il giornalista che mi ha visto debuttare e ancora ha la voglia di intervistarmi. Cosa voglio di più?

E’ la volta appunto di Mattioli, che alla domanda cosa vede nel futuro della boxe italiana è tassativamente negativo. “I ragazzi stanno troppo bene, la boxe è sport di sacrifici e devi saper soffrire. E’ vero, le palestre sono piene di giovanotti che fanno ginnastica e al primo scambio di pugni salutano e vanno a ballare. Quando entrai in palestra in Australia, avevo 13 anni e dopo pochi giorni di ginnastica mi misero a fare i guanti, con uno che aveva già disputato diversi incontri e pesava dieci chili più di me. Me le suonò di brutto, ma imparai che non dovevo mai arrendermi e combattere per vincere. Perché non mollai? Perché ero povero e la boxe poteva farmi guadagnare i dollari per uscirne fuori. Certo, devi avere gli attributi e io lo avevo”.

Nel 1977 sei andato a Berlino nella tana del tedesco Dagge, idolo delle donne, che occupavano il bordo ring incantate, pronte a osannarlo. Purtroppo per lui, dovettero assistere alla sua esecuzione. Al quinto round lo hai steso. Cosa avevi dentro per ottenere quel risultato?

“La boxe era il mio mestiere e la mia vita. Per quel mondiale avevo sputato sangue nella preparazione, tutta quella fatica non potevo gettarla al vento. A Dagge restavano le ammiratrici e io mi prendevo la cintura mondiale”.  

Nel marzo del 1970, Benvenuti venne a combattere in Australia a Melbourne e abbandonò all’ottavo round contro Tom Bethea detto ‘la bomba’. Eri presente a quell’incontro? Perché il pubblico fischiò l’italiano per tutto il match?

“Nell’occasione disputai il mio secondo confronto da pro, battendo Glenn Grinsted sui quattro round. I fischi del pubblico derivavano da un episodio che rischiò di far saltare l’incontro. Il procuratore Bruno Amaduzzi volle essere pagato prima del match, mettendo in imbarazzo l’organizzatore che contava di pagarlo il giorno dopo, con l’incasso al botteghino. Niente da fare, se non pagava prima, Benvenuti non saliva sul ring. Lo salvò un altro organizzatore che firmò un assegno personale (30.000 dollari) pari a 19 milioni di lire. Il match slittò di quasi due ore e quando il pubblico venne a sapere il motivo, si scatenò contro l’italiano, che deluse al punto di abbandonare, tra i fischi degli spettatori”.

A distanza di un mese e mezzo a Umago, Nino riservò lo stesso trattamento all’americano.

“A Melbourne perse una grande occasione, al di fuori dei due risultati. Io stesso ero curioso di vedere combattere Benvenuti, che era campione del mondo e confesso che fu una grande delusione”.                                                    

A fine cena tutti soddisfatti, con la speranza di poterla ripetere fra non molto, anche se Zanon avvisa che per mettere da parte i soldi per il viaggio ci vuole più di un anno. Da buon brianzolo, col sorriso dello scherzo, lancia l’idea dalla colletta.                                                                                                                                                     

“Magari fate una lotteria e il ricavato va per la spesa   del viaggio”.                                                                                                           

Detto da uno che riuscì a girare mezza California in incognito, tutto è possibile.

Giuliano Orlando