Ho incontrato Ubaldo Paschini una sola volta in vita mia. Era una mattina del 2010 e il mio direttore Sergio Chiesa mi disse: "Guido, andiamo a trovare un amico". Mi caricò in moto e in pochi minuti fummo a Sesto San Giovanni, in una palestra (la Sport Club Sesto) con un paio di giovani che all'ora di pranzo sudavano sotto lo sguardo attento di questo signore. Li guardava con orgoglio, muoversi e correre tra quelle mura che erano il suo gioiello. Qualche chiacchiera e le presentazioni di rito: "Cosa ne dici Sergio? Non sai che sacrifici ci sono dietro". Ancora un giro tra i corridoi, poi a pranzo, in un ristorante lì accanto.
Ubaldo Paschini era di casa, si vedeva, gli diedero il suo tavolo e subito arrivò il vino. Bianco. I bicchieri si riempirono veloci, in un tempo ancora più breve li svuotammo. Verace come la terra da cui proveniva (nato a Marzovalis di Verzegnis, ridente borgo di montagna nei pressi di Tolmezzo, in provincia di Udine) sembrava divorare tutto. Di pancia, vulcanico e passionale. Aggiornava l'amico Sergio delle ultime novità (aveva ricevuto l'anno prima uno speciale riconoscimento dalla Federazione internazionale per "aver contribuito allo sviluppo del judo nel Mondo"), mentre io ascoltavo silenzioso, in una leggera timidezza che mi contraddistingue ai primi incontri. Ma quel signore non ci impiegò molto a coinvolgermi. Mi raccontò la sua storia, dagli inizi.
Quando, a soli 16 anni, nel 1954 partì per andare a Parigi a cercar fortuna. Il dipinto di quel viaggio in treno resta uno degli aneddoti più affascinanti che abbia mai sentito. "Mia madre mi infilò un salame in un sacco. Quelli del Sud alla stazione si distinguevano perché avevano il tutto chiuso con il fil di ferro, io avevo un filo di spago perché portavo dietro decisamente meno roba". Risi e inconsapevolmente aprì gli argini di quel fiume in piena.
A Parigi trovò lavoro per un il restauro di un mosaico in una chiesa. Erano i primi anni Sessanta, lì incontrò per la prima volta il judo con Kawaishi e successivamente con Ameaux – Kalanderian a Le Plessis Robinson. Un'esperienza segnata anche dall'incontro con Yves Klein, artista francese di fama mondiale, legato alla poetica Dadaista e precursore della Body Art. Ma fu proprio mentre lavorava con i tasselli del mosaico di quella chiesa che gli venne l'idea di un tatami (il tappeto dove i judoka si sfidano) non più monocolore, ma con diverse forme incastonate. Ne elaborò di bellissime, specialmente una volta inaugurato (nel 1970) il Trofeo Internazionale "Abramo Oldrini”.
Un'idea semplice e geniale che non conobbe più confini. Ma non si fermò qui, perché la vivacità di quest'uomo lo spinse a cercare sempre la novità, il guizzo. Così mi raccontò di essere stato tra coloro che spinsero ad abbandonare le solite e celebri divise bianche (i judogi), per quelli colorati che permettessero meglio anche al pubblico di distinguere gli atleti (specialmente dalla tv). E infatti oggi, nei tornei internazionali ed olimpici, uno dei due sfidanti indossa un judogi di colore blu. Piccole grandi innovazioni che hanno aiutato la storia di questo sport, non solo in Italia ma nel mondo. Quella semplicità che rende le cose migliori.
Ci alzammo da tavola solo due ore dopo, con lo stomaco pieno ci cibo e vino, insieme a una serie di racconti da segnarsi e raccontare. Purtroppo la memoria non sempre regge il ritmo dello stupore. Così mentre tornavamo in redazione pensavamo a quanto sarebbe stato bello, per me giornalista alle prime armi, raccontare in un'intervista filmata quelle storie, quegli aneddoti. Quel personaggio di cui sapevo e so, ancora oggi, troppo poco.
La quotidianità delle cose da fare sbranò anche quel buon proposito. E oggi, che leggo la triste notizia della sua morte, non posso che dispiacermi di quella semplice buona idea, che avrei proprio dovuto portare avanti.