Ali è morto, viva Ali: campione sul ring e nella vita

Pubblicato il 4 giugno 2016 alle 18:35:01
Categoria: Boxe
Autore: Redazione Datasport.it

Il più grande ci ha lasciati. Alì è morto, viva Alì. Il personaggio sportivo più popolare al mondo ha chiuso gli occhi nell’ospedale di Phoenix nello stato dell’Arizona, a 74 anni. Un percorso da predestinato, iniziato nel settembre 1960, ai Giochi di Roma, conquistando l’oro nei mediomassimi. Aveva 18 anni, i romani l’avevano conosciuto come un giovane molto ciarliero, che la sera usciva per conoscere la città e gettava monetine nella Fontana di Trevi. Quando tornò a casa nella sua Louisville nel Kentucky, si mise nelle mani di Angelo Mirena, origini calabresi, in arte Dundee, che lo seguirà sempre, anche dopo aver lasciato il ring, più amico  che manager. Due mesi dopo l’oro olimpico debutta al professionismo sul ring di casa, battendo Tunney Hunsaker sui 6 round. Il primo squillo di una carriera che ha toccato vertici di popolarità mai raggiunti da nessun altro campione dello sport.

Raccontare l’iter di Ali è esercizio impossibile. Diciamo che i suoi capitoli sono infiniti. Esclamativo il periodo in cui le cronache lo seguono sul ring, ovvero dal 1960 al 1981, anche se la carriera vera si conclude nel settembre del 1978 a New Orleans, quando ottiene la rivincita su Leon Spinks e, unico massimo nella storia, torna campione del mondo per la terza volta. Ha 36 anni, il  pugile che vola come una farfalla è un ricordo, Angelo Dundee lo consiglia di smettere. Sembra convinto e annuncia il ritiro. Resta fermo due stagioni, ma il 2 ottobre 1980 lo ritroviamo ancora sul ring, sulla soglia dei 39 anni, appesantito nel fisico e nel lanciare i pugni. Infatti l’emergente Larry Holmes, per anni suo sparring preferito, difende facilmente la cintura, mettendolo KO all’11.o round.

Incredibile ma vero, l’11 dicembre 1981, sulla soglia dei 40 anni, a Nassau la capitale delle Bahamas, stuzzicato dalla borsa degli organizzatori, si confronta con Trevor Berbick, un jamaicano residente in Canada, dodici anni più giovane, che lo batte sui 10 round e che nel marzo del 1986 diventa campione del mondo, regno brevissimo, interrotto otto mesi  dopo dal ventenne Mike Tyson, che a Las Vegas lo distrugge in due round, diventando il più giovane campione del mondo dei massimi. Record imbattuto. Fine della storia agonistica e inizio di quella dell’uomo che riesce a convogliare i consensi del mondo. Le qualità istrioniche messe in atto nei vent’anni di battaglie pugilistiche, sono state la palestra d’avvio per altre missioni di valore assoluto.  

Esternazioni inframmezzate da parentesi di alto valore umano e civile, come il rifiuto di combattere nel Vietnam contro un popolo  di cui non si sente nemico, che gli costa lo stop forzato di oltre tre anni, nel momento di maggior vigore atletico, ma anche la scoperta da parte del mondo di un protagonista che va al di sopra dei pugni e si pone come missionario e volano di altre battaglie, che vanno dai diritti del suo popolo di colore alla denuncia delle ingiustizie nel globo. La vedova di Martin Luther King, dopo aver assistito ad un suo incontro dichiara: “Ali non è solo un campione della boxe, ma il campione della giustizia e della pace”. Profezia avveratasi alla grande. Il Clay-Ali degli sberleffi, del chiacchierato mondiale con Sonny Liston nel maggio 1965, delle difese a raffica con i suoi pugni troppo rapidi per qualsiasi avversario, fosse Patterson, Chuvalo, Cooper, London, Mildenberger, Williams, Terrel fino a Zora Folley, il plotone di sfidanti respinti, del primo racconto, come quello del ritorno dopo lo stop forzato, la sua popolarità non ha mai conosciuto tramonti.

Non la sconfitta contro Frazier, un martello di colore che non conosce soste nel colpire, e tantomeno le infinte esibizioni nei primi anni ’70, pagatissime da un pubblico che arriva da ogni cento sociale. Lo zenit di Kinshasa nello Zaire, la notte del 30 ottobre 1974, con Foreman distrutto non solo dai pugni, ma dal carisma di un Ali, che sembra non sentire i pugni d’acciaio del gigante texano, osannato da un pubblico infinito che lo adora, segna la tappa indelebile che trasforma un campione in simbolo. Il resto della storia  agonistica protrattasi altre sei stagioni, ha cementato questo concetto, ampliando il suono della missione in tutti i continenti. Gli anni successivi, dalla scoperta del Parkinson al sempre crescente impegno dell’uomo verso quella salita infinita delle riparazioni dei torti sopportati dalle minoranze, dagli emarginati e dalle vittime di guerre sempre più violente quanto ingiuste e inutili, hanno idealizzato e fatto materia il suo spirito di missionario per la giustizia. L’ultimo messaggio, recente è stata la risposta negativa all’ennesimo sproloquio di Trump, contro l’esodo degli emigranti musulmani. La sua fioca voce  è salita nel cielo dei media e tutto il mondo ha saputo che anche se il tramonto stava avvicinandosi, Ali era sempre più vivo.

Mi sia concesso di ricordare che ho avuto la fortuna di assistere da bordo ring, alla sua vittoria olimpica nel 1960, di averlo intervistato e visto combattere diverse volte, spesso grazie all’amicizia dell’amico e collega Gianni Minà, e sempre col suo supporto nel 1983, nel corso della trasmissione televisiva “Blitz”, il grande campione assieme a Nino Benvenuti, hanno presentato “La storia del pugilato”, vincitore del premio Coni, e la foto che lo ritrae col mio libro è sempre stata la più preziosa della mia pur vasta galleria personale.
Oggi Ali ha lasciato la vita terrena, ma il suo ricordo non si cancellerà mai, perché il suo messaggio va oltre il tempo e si staglia come il pugno più bello della sua vita.